Girando per le sue strade sembra di fare un tuffo nell’Italia del passato, fra profumi della cucina nostrana e vecchi modelli Renault. Anche se rimane aperta la questione del riconoscimento delle seconde generazioni di italiani rimasti nella nazione dopo la liberazione e del governo dittatoriale eritreo
Sembra una Little Italy ma decisamente più autentica, più vera, dove il retaggio culturale italiano è stato portato avanti dalle seconde generazioni in un’ottica ibrida con la popolazione locale.
Stiamo parlando dell’Eritrea, uno stato collocato nella parte settentrionale del Corno D’Africa e diventata ufficialmente nazione libera nel 1993.
Ma cosa c’entra l’Eritrea con l’Italia? E perché oggi si parla di Eritrea italiana? Per capirlo bisogna fare un passo indietro nella storia, e alcuni eventi ci spiegheranno il perché, oggi, passeggiando fra le strade della sua capitale Asmara accanto ai piatti tipici africani potrete gustare una lasagna fatta ad opera d’arte, un gelato all’italiana o degli ottimi spritz.
Ma non è tutto oro quel che luccica.
L’inizio dell’occupazione italiana del territorio eritreo ebbe inizio nel 1869 e fu la prima colonia del Regno d’Italia.
A differenza di altri stati quali l’Etiopia, l’Eritrea è stata la colonia con la più forte presenza italiana.
Solo nel 1939 un censimento stimò la presenza, solo ad Asmara, di 53mila italiani su una popolazione totale di 98mila cittadini.
Nei sessant’anni in cui l’Eritrea era colonia italiana la comunità italiana divenne sempre più folta e importante.
Dopo il 1936 l’Eritrea entrò a far parte dell’Africa Orientale Italiana, e l’avvento del fascismo portò a una fortissima crescita della comunità che chiede vita alla costruzione di numerose chiese, di edifici in pieno stile europeo anni ’30.
L’invasione britannica nel 1941, tuttavia, portò nel giro di pochi decenni alla quasi totale scomparsa dei 100mila cittadini nella comunità italiana eritrea.
Alla fine, dopo un periodo di annessione all’Etiopia, di cui il territorio divenne una sorta di provincia, l’Eritrea intraprese una strenua lotta per l’indipendenza che si concluse con un referendum nel 1993.
Nel 2007 gli italo-eritrei rimasti erano poche centinaia, ma ad Asmara sono rimaste operative una serie di scuole statali italiane.
Se, tuttavia, il lato “positivo” della medaglia è quello di un contesto culturale estremamente ibrido nel quale la cultura eritrea e quella italiana si sono contaminate a vicenda, c’è l’altro lato tutt’altro che positivo.
Oltre al violento bersagliamento della comunità italiana avvenuto negli anni ’50 dalle milizie sciftà, i ribelli contro governo e istituzioni, più avanti nel tempo si pose la questione riguardante la concessione della cittadinanza italiana a coloro i quali erano rimasti su territorio eritreo e agli italo-eritrei di seconda generazione.
Nel 1992 la legge tricolore concesse il diritto di cittadinanza italiana anche ai discendenti di secondo grado in linea retta, ma rimase quasi più sulla carta che effettivamente fattuale.
Dal momento in cui la legge è stata varata, infatti, solo 80 italo eritrei sono riusciti a ottenere la cittadinanza italiana e riuscire a trasferirsi in Italia, mentre, si apprende dalla documentazione ufficiale, più di 300 richieste rimangono inevase fra le scartoffie degli uffici del consolato di Asmara.
Ad aggravare la situazione è una legge fascista varata nel ’33 secondo la quale, col pretesto di preservare la “purezza della razza”, ai padri fu vietato di riconoscere i figli “meticci”, che ai tempi venivano in senso dispregiativo indicati con l’appellativo dqala ed emarginati socialmente.
Fino al 1975, anno in cui in Italia venne varata la riforma sulla famiglia, il diritto italiano proibiva agli oltre 15mila discendenti meticci di portare il cognome paterno.
Un retaggio, questo, che porta ancora oggi a gravissime conseguenze sul piano dei diritti di cittadinanza degli italo-eritrei che vorrebbero vivere in Italia.
Ad aggravare la loro situazione la decisione di chiudere la Scuola Italiana durante la pandemia covid-19, poi fortunatamente riaperta dopo due anni di stop.
Non potremmo certamente definirlo sano, ma di buono c’è che l’incontro fra la cultura eritrea e quella italiana ha dato vita a un unicum nel mondo.
L’esempio per eccellenza è Asmara, oggi patrimonio Unesco.
L’Internazionale riporta i racconti, ad esempio, di Giampaolo Montesanto, professore nella capitale eritrea e autore del documentario Meticci uscito nel 2018.
“I suoi caffè si chiamano sempre Moderno e Vittoria”, conferma il docente. “Resistono il Mocambo, dove si esibirono Macario, Alberto Sordi e Anna Magnani, il cinema Impero, il Roma o la stazione di servizio Fiat Tagliero, simile a un’astronave in stile futurista”.
Anche il piccolo documentario di Drew Binsky sembra descrivere una bellissima capitale, dove accanto al cibo tipico africano puoi trovare ottime porzioni di lasagna, gelato artiginale e i migliori liquori da aperitivo italiani.
Fra le vie sfrecciano vecchie Renault e Fiat di ogni tipo, tutto rigorosamente vintage.
Ma dietro questo splendido tour di un’ “Italia africana”, c’è anche qualcosa di terribile.
Gli abusi perpetrati dai colonizzatori nell’800, quelli fascisti e razzisti nel ‘900 e l’atteggiamento attuale del governo italiano verso i cittadini italiani in Eritrea, trattati quasi fossero “figli di serie B”.
Ad aggravare il tutto è l’attuale situazione politica.
L’unico partito legalmente accettato è il Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia, e non è concesso formare altre aggregazioni politiche nonostante sia espressamente previsto dalla costituzione che, pur essendo stata approvata nel ’97, non è mai stata applicata.
E’ infatti attualmente in corso una vera e propria dittatura, anzi, “uno dei regimi politici più duri al mondo che ha soppresso ogni forma di libertà”, come scritto dall’agenzia Habeshia in una lettera al premier conte in occasione della visita in Eritrea nel 2018, con l’obiettivo di portare avanti un programma di pace e di gestione dell’immigrazione, in un paese che dimenticato troppo spesso i suoi cittadini nel mondo.
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