L’infarto continua ad essere una delle principali cause di morte in una popolazione dove ogni anno avvengono 230.000 decessi per malattie cardiovascolari.
In Italia, infatti, il documento Prevenzione Italia 2021, pubblicato lo scorso anno, aveva fatto chiaramente emergere un aumento dei fattori di rischio già prima della pandemia, con un quadro aggravato nell’ultimo periodo. Anche per questo, ogni anno vengono eseguiti studi molto approfonditi per cercare di capire come prevenire al meglio il rischio di avere un infarto, anche attraverso le terapie più indicate.
Ma un’ultima ricerca ha fatto emergere un altro aspetto che potrebbe risultare molto importante nella prevenzione su questo campo. Una semplice visita oculistica non invasiva, infatti, potrebbe aiutare a stabilire se un soggetto è a rischio infarto oppure no, ovviamente confrontando i risultati con gli altri dati relativi a tutto il quadro clinico.
I ricercatori, che presenteranno lo studio alla conferenza annuale della Società europea di genetica umana, a Vienna, hanno usato i dati della biobanca britannica, dove sono contenute cartelle cliniche su 500.000 persone in base al loro stile di vita.
Lo studio ha messo in evidenza che le informazioni sui vasi sanguigni della retina, unitamente ai fattori clinici tradizionali, sono in grado di far individuare meglio il rischio di un infarto rispetto ai modelli classici, che tenevano conto solo dei dati demografici.
“Sorprendentemente, abbiamo scoperto che il nostro modello è stato in grado di classificare meglio i partecipanti con rischio d’infarto miocardico basso o alto nella biobanca britannica rispetto ai modelli consolidati che includono solo dati demografici. Il miglioramento del nostro modello è stato ancora maggiore quando abbiamo aggiunto un punteggio relativo alla propensione genetica allo sviluppo d’infarto miocardico”.
Sono le parole della dottoranda presso gli istituti Usher e Roslin dell’Università di Edimburgo, Ana Villaplana-Velasco, che ha realizzato la presentazione e ha spiegato nel dettaglio i risultati ottenuti nello studio.
Al momento lo studio non riesce ad evidenziare se rischiano di più gli uomini o le donne. Tuttavia, la stessa dottoranda ha precisato che lo studio verrà ripetuto separatamente tra maschi e femmine per valutare se un modello specifico per sesso possa favorire una migliore classificazione del rischio.
Chiaramente, per ora si tratta soltanto di un quadro iniziale, a cui dovranno seguire molti ulteriori studi per provare a capire se effettivamente le conclusioni a cui è giunta la ricerca possono considerarsi solide. Una puntualizzazione che ha tenuto a fare anche il direttore medico della British Heart Foundation, il professor Sir Nilesh Samani.
Di sicuro questo nuovo approccio può rivelarsi davvero molto utile per aiutare il medico a migliorare le azioni di prevenzione e anticipare le giuste strategie terapeutiche.
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