Collegato in videoconferenza, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha parlato oggi alle 11:00 al parlamento italiano, riunito in seduta comune, come aveva già fatto nei giorni scorsi in Germania, Canada, Israele, Regno Unito, Stati Uniti e al parlamento europeo.
Zelensky ha esordito enfatizzando l’impegno del popolo ucraino che “è diventato il nostro esercito”, come da lui stesso affermato, ma il cuore del suo discorso si può trovare nella volontà del presidente ucraino di sensibilizzare l’Europa, non solo l’Italia, auspicando un impegno maggiore dell’Occidente contro la Russia. Proprio per questo Zelensky ha voluto ricordare le vittime più deboli della guerra, i bambini.
Ne sono stati uccisi 117 da quando il Cremlino ha invaso il confine orientale del Paese, “il prezzo della procrastinazione” è stato la morte dei civili. Ma questo discorso volto a smuovere la comunità internazionale, divenendo un vero e proprio format, non nasconde mai le richieste puntuali promosse dal presidente ucraino, come ulteriori sanzioni da parte dell’Italia, in questo caso, alla Russia, oppure un’accelerazione dell’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europa.
“Gli ucraini sono stati vicini a voi durante la pandemia, noi abbiamo inviato medici e gli italiani ci hanno aiutati durante l’alluvione. Noi apprezziamo moltissimo ma l’invasione dura da 27 giorni, quasi un mese: abbiamo bisogno di altre sanzioni, altre pressioni“, ha fatto intendere Zelensky. Insomma, pare che guardare da un osservatorio privilegiato non basti più. L’ucraina vuole che l’Europa si sporchi le mani ed entri in gioco, in un modo o nell’altro, in quest’ottica, forse, si può leggere il commento del Presidente del Consiglio, Mario Draghi, subito dopo l’intervento del presidente ucraino.
La posizione netta di Mario Draghi
“Vogliamo disegnare un percorso di maggior vicinanza dell’Ucraina all’Europa. Nelle scorse settimane è stato sottolineato come il processo di ingresso nell’Unione Europea sia lungo, fatto di riforme necessarie a garantire un’integrazione funzionante. Voglio dire al Presidente Zelensky che l’Italia è al fianco dell’Ucraina in questo processo. L’Italia vuole l’Ucraina nell’Unione Europea“. Così ha parlato il presidente di fronte ai parlamentari.
E’ la prima volta che Mario Draghi prende una posizione così netta dall’inizio della guerra, complice forse il clima teso tra Roma e Mosca, dopo le dichiarazioni del direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, Alexei Paramonov che ha fatto presente che se il governo italiano dovesse allinearsi alla “logica del ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire, che ha dichiarato la totale guerra finanziaria ed economica a Mosca” provocherebbe “una serie di corrispondenti conseguenze irreversibili“, così come riportato da ‘Sky tg24′.
“Dall’inizio della guerra l’Italia ha ammirato il coraggio, la determinazione, il patriottismo del presidente Zelensky e dei cittadini ucraini. Il vostro popolo è diventato il vostro esercito, l’arroganza del governo russo si è scontrata con la dignità del popolo ucraino che frena le mire espansionistiche di Mosca e pone costi altissimi all’esercito invasore”, ha continuato poi il presidente Draghi, punendo severamente l’azione militare russa sul suolo ucraino. Insomma, l’auspicio e la vicinanza di Draghi a Kiev e la condanna pesante a Vladimir Putin sono degli aspetti assolutamente inediti.
Ma è possibile per l’Ucraina accelerare il processo di ingresso nell’Unione Europea? Dopo la richiesta ufficiale firmata da Zelensky, alcuni paesi membri dell’Europa orientale Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia e Slovenia avevano a loro volta firmato un comunicato congiunto in cui si invitava l’Unione Europea ad avviare sin da subito l’iter necessario per far dell’Ucraina un paese candidato all’adesione dell’Ue. Ma il processo è lungo e tortuoso ed alcuni Paesi lo sanno molto bene.
Paesi nel limbo, dalla Turchia all’Albania
Le parole di Draghi, in questo senso, potrebbero dare forse più di un sostegno morale, ma non è semplice. Lo stesso presidente del consiglio ha parlato di riforme fondamentali per poter accedere all’Ue, le stesse che al momento rendono abbastanza guardinghe nazioni come la Germania. Per far parte dell’Unione Europea, infatti, si devono applicare riforme economiche ed istituzionali molto complesse e che garantiscano una stabilità finanziaria e governativa all’interno del paese candidato, elementi questi assenti nell’asset socio-politico di Kiev ancor prima che scoppiasse la guerra.
Ma non solo. Un paese candidato supera l’intero processo se garantisce anche al suo interno il rispetto della libertà, della democrazia, dei diritti dell’uomo, delle libertà fondamentali e dello stato di diritto. Proprio per questo, ci sono ancora cinque nazioni a cui è stato concesso, sì, lo status di candidato, ma i cui negoziati al momento sono ancora in corso. Stiamo parlando della Turchia, del Montenegro, della Macedonia del Nord, della Serbia e dell’Albania.
La Turchia ha avanzato la domanda di adesione nel lontano 1987 e ha raggiunto lo status di candidato nel 1999. Nel 2004 è stato il turno della Macedonia del Nord, che è diventata ufficialmente una candidata all’adesione nel 2005. Il Montenegro ha raggiunto lo status di candidato dal 2010, due anni dopo aver presentato la richiesta. A tre anni, invece, dalla domanda, la Serbia nel 2012 è diventata un paese candidato, mentre l’Albania lo è dal 2014, cinque anni dopo la richiesta.
Per la Macedonia e l’Albania, dopo diversi rinvii della decisione dovuti prevalentemente all’opposizione dei governi francese, neerlandese e danese e l’adozione di una nuova procedura per i negoziati da parte della Commissione, il 24 marzo 2020 il Consiglio dell’Unione europea ha dato il via libera unanime all’apertura dei negoziati di adesione per Albania e Macedonia del Nord, senza però fissare una data per il loro avvio.
Più complicata è la situazione turca, oltre a problematiche economico-finanziarie, infatti, l’instabilità politica e la natura della stessa Repubblica inibiscono di molto il processo di adesione. Gli stessi negoziati nel corso degli anni si sono arenati parecchio, soprattutto dopo il fallito colpo di Stato di sei anni fa che inaugurò una nuova fase della presidenza di Erdoğan ad Anakara.
Erdoğan, che pure del colpo di stato fu la vittima, ne approfittò per liberarsi dei suoi nemici interni e cominciò una campagna di eliminazione delle presunte “minacce”: sono state arrestate centinaia di migliaia di persone e altrettante furono licenziate da incarichi pubblici nell’esercito, nell’istruzione e nel sistema giudiziario; ma molte di questi avevano poco o addirittura niente a che fare col golpe.
Ma anche la sua politica estera è cambiata. Oltre ad un accentramento dei poteri sulla sua persona, il presidente turco si è sempre di più allontanato dalla Nato, prediligendo l’intensificazione dei rapporti con la Cina e la Russia, sulla quale Erdoğan ancora non ha preso una posizione netta.