Sento la voce rotta dal pianto all’altro capo del telefono.
Le storie sentite in tv fanno un certo effetto, quelle sentite dal proprio orecchio ben altro.
Me la racconta una giovane dell’Ucraina dell’ovest, di Ivano-Frankivs’k.
Vive e lavora in Repubblica Ceca, ma per Natale e per un paio di mesi decide di tornare in Ucraina – ha una figlia, lì, come tanti migranti che lasciano il proprio paese (che non è certo Bengodi) per trovare fortuna all’estero (poco importa se la fortuna sono decine di ore di lavoro sottopagato senza un giorno di pausa).
La guerra la sorprende e decide di non tornare – non adesso, per lo meno – in quell’Europa che poco sta facendo per il suo paese.
Questo è quanto emerge nel discorso pubblico, ce ne rendiamo abbastanza conto anche noi.
Ed emerge anche un odio per i russi sin dal giorno 1 dell’invasione. In precedenza, non una parola d’odio verso i loro vicini.
Sono passati già diversi giorni dall’inizio del conflitto. Non oso pensare lo stress che si possa vivere dinnanzi alla possibilità che da un momento all’altro giungano i nemici e le bombe e la distruzione.
La voce rotta dal pianto all’altro capo del telefono mi racconta che a Mariupol – dall’altro lato del Paese – hanno distrutto un ospedale dove c’erano le donne incinta e i bimbi e mi racconta di influencer russe che dichiarano di odiare l’Ucraina e di una non meglio specificata funzionaria del paese ora nemico che ha detto che le donne ucraine non devono più riprodursi.
Del dramma di Mariupol sappiamo tutto anche noi. Del resto, penso sia propaganda ma non ho il coraggio di dirglielo.
Mi limito a dire, anche per mostrare che non è un monologo e io sì ci sono ad ascoltare pur col mio occidentale senso di colpa, che gli influencer non sono esattamente le persone che prenderei come opinion leader e tanta gente è contraria alla guerra ad ogni latitudine, anche in Russia, e quindi la influencer in questione è da prendere con le molle.
Mi sento stupido a mia volta a parlare di influencer, quando – ringraziando il Signore o chi per lui – qui c’è la pace e lì a 789 km circa (la distanza fra la mia raggiante città d’origine e Roma è 5 km maggiore) si teme per la guerra.
Ma finché si parla di propaganda, di influencer, di informazione approssimativa tipica dei tempi di guerra (così dicono) e di questi tempi postmoderni (questo è certo), posso anche dire la mia.
Ma a un certo punto la voce rotta dal pianto mi racconta una storia di vita vissuta.
Mi parla di un ragazzo di 19 anni che decide di andare dove il conflitto già c’è, assieme ad un amico. Va volontario a Kharkiv, dall’altra parte del Paese (sono oltre 1000 km di distanza).
Ha 19 anni, una fidanzata e suppongo che le sue esperienze militari possano essere limitate a qualche pomeriggio al poligono e a qualche videogioco.
Per certo, mi assicura la voce rotta dal pianto, non è un militare.
Si arruola per salvare la patria, a 19 anni. Quando io a 19 anni pensavo a cosa fare di bello il mercoledì, il giovedì, il venerdì e il sabato sera, oltre al fatto che il concetto di patria non è che mi convincesse e m’abbia mai convinto troppo (pur amando visceralmente il mio Paese e sono così provinciale che amo visceralmente pure la mia raggiante città da cui da anni mi trovo distante).
Sono convinto che comunque non mi sarei arruolato, lo penso, e penso sia una follia farlo ché non stiamo parlando di un videogame e a quella giovane età finisce che ci lasci le penne. Non lo dico, ci mancherebbe.
La voce rotta dal pianto mi racconta che di lui si erano perse le tracce il martedì o il mercoledì.
L’amico racconta che una bomba ha fatto crollare un edificio ed è finita che l’amico c’è rimasto sotto e – assicura, disperato – che non c’è nulla da fare.
La famiglia e la fidanzata non vogliono crederci – dentro di loro covano la speranza che in qualche modo sia riuscito a mettersi in salvo.
La speranza – a differenza degli uomini – è l’ultima a morire.
Sabato invece anche la speranza decede. Arriva una fredda chiamata, da un qualche funzionario: il giovane è stato trovato, sotto le macerie.
Non è morto per l’impatto delle macerie, non è morto per le armi da fuoco in sé.
E’ morto, sotto le macerie, di freddo.
“Capisci che morte atroce?” – mi urla quasi, quasi fosse colpa mia, con la voce rotta dal pianto.
No, non capisco. Non ne sono capace.
Capisco solo che tutto questo è una follia.
Ma taccio e ripeto – sentendo che è l’unica cosa che sono autorizzato a dire – “speriamo che tutto questo finisca presto”.