Arrivano delle presunte novità procedurali nella storia di Marisa Toraldo, la madre di Alessandro Nasta, il sottufficiale della marina decedudo sull’Amerigo Vespucci mentre era in servizio nel 2012. Sono passati 10 anni e da allora la madre ha iniziato una lunga battaglia sulle norme riguardanti la sicurezza sul lavoro e le mancanze che avrebbero portato alla morte del figlio
Aveva 29 anni e una lunga carriera davanti Alessandro Nasta, il sottufficiale e nocchiere di terza classe della marina deceduto il 24 maggio del 2012 mentre era in servizio sull’Amerigo Vespucci, il veliero e nave scuola più vecchio della marina militare italiana.
Una storia complessa, nella quale per poter comprendere nel modo migliore le dinamiche bisogna addentrarsi nell’ostica materia che è la sicurezza sul lavoro.
Un compito, questo, di cui si è fatto carico mamma Marisa, con l’unico obiettivo di dare giustizia a suo figlio a costo di scontrarsi con un sistema ostico come quello dei tribunali.
Ma, a distanza di 10 anni, questa risposta tanto attesa fatica ad arrivare.
Il 24 maggio del 2012 Alessandro si trovava in servizio sull’Amerigo Vespucci, che navigava in quel momento a 40 miglia a Nord di Civitavecchia.
Originario di Brindisi, quel giorno Alessandro aveva attaccato il suo turno alle 4 del mattino e, quando arrivò l’ora di smontare, venne chiesto a lui e alla sua squadra di affiancare quella che si trovava di turno, come si legge sul Corriere della Sera, per chiudere le vele.
Una richiesta che, stando a quanto dichiarato dai compagni della vittima, era su base volontaria.
Alessandro salì sull’albero maestro, il più alto, ad un’altezza di 54 metri e, come da tradizione marinaresca, scese giù dall’albero senza imbragature che lo potessero proteggere delle cadute.
Tuttavia era da due anni che era entrato in vigore il Testo unico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, valido tanto per i civili quanto per i militari.
Va specificato, come riporta sempre il Corriere, che il sottufficiale era sì imbragato, ma da quella che viene definita come “cintura di posizionamento”, che andava ancorata alla struttura solo per il tempo in cui il militare ha entrambe le mani impegnate.
Ma non ha valenza né per salire né per scendere. Finite le operazioni di chiusura delle vele, Alessandro discese dall’albero per poi fermarsi sulla cosiddetta coffa, una piattaforma posizionata a 15 metri di altezza.
Mentre il collega di sotto si trovava nella posizione di discesa sentì una “forte vibrazione” e, guardando in basso, vide Alessandro precipitare giù.
Non un urlo né un tentativo di aggrapparsi. Alla fine Alessandro morì sull’elicottero che lo stava trasportando d’urgenza presso la struttura ospedaliera più vicina.
Una tragedia immane, che travolse la sua famiglia e i suoi genitori, i quali, da quel momento, non si sono dati pace rispetto alle cause, o meglio, alle mancanze che hanno condotto alla morte del figlio.
La madre ha iniziato una lunga battaglia, fatta di studio delle norme di sicurezza e di dettagli inerenti la formazione che i marinai devono fare prima di prendere servizio.
E’ stato solo dopo il caso Nasta che la Marina militare ha deciso di adottare misure che, in sostanza, avrebbero potuto salvare la vita del giovane Alessandro.
Imputati, in tal senso, l’allora comandante della Vespucci, Domenico La Faia, e tre Capi di Stato Maggiore che erano ai vertici della Marina: gli ammiragli Giuseppe De Giorgi, Bruno Branciforte e Luigi Binelli Mantelli.
Dalla prima udienza a oggi ci sono stati ben 4 passaggi di mano, che hanno ulteriormente rallentato le procedure.
Vi è però, una novità: l’ultimo giudice in ordine di arrivo ha ammesso nuove prove e non ha escluso che l’attività processuale potrebbe essere fatta da capo.
Il tempo, però, è tiranno. Come sottolinea infatti la madre, i tempi per la prescrizione si avvicinano e tutti gli sforzi fatti, che porti anche a un’assoluzione a un’assenza effettiva di colpevoli, rischiano di rivelarsi un nulla di fatto.
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