A quasi una settimana dall’inizio del conflitto in Ucraina, il presidente russo Vladimir Putin, malgrado i colloqui di negoziazione in queste ore al confine tra Bielorussia ed Ucraina, non sembra disposto a cedere di un centimetro, rimanendo piuttosto fermo sulle sue posizioni.
Si è spinto, infatti, troppo oltre ora per poter tornare indietro. Che sia per debolezza dell’Europa, per paura dell’avanzata democratica e liberale tra i paesi dell’ex blocco sovietico o più semplicemente, come comoda narrazione di contorno a queste giornate, per un ritorno agli assetti politici della Guerra Fredda, non è ancora chiaro.
Molti osservatori, infatti, o perfino “esperti” si spellano i polpastrelli, sistemano la voce e riordinano le idee giusto in tempo per poter esprimere la loro opinione sulla condotta, nonché sulle future mosse, del Cremlino; tuttavia la confusione resta e cercare il bandolo della matassa non è così semplice. Una cosa però è certa.
Nella giornata di domenica Putin ha messo in stato d’allerta le forze di deterrenza russe, ovvero tutte le forze strategiche dell’esercito che comprendono mezzi e sistemi militari di attacco e di difesa; tra queste si annovera soprattutto l’armamento nucleare. Con questo annuncio Putin non ha ordinato apertamente di utilizzare le armi nucleari a sua disposizione per intensificare gli attacchi dell’esercito russo in Ucraina, ma la decisione di farlo è un importantissimo campanello d’allarme che non può essere ignorato, anche se al momento la scelta del presidente russo resta una minaccia più che una mossa militare. Ma come si è arrivati all’intimidazione dell’arsenale nucleare?
La decisione di Vladimir Putin sarebbe stata dettata dalle durissime sanzioni – esclusione delle banche russe dal sistema SWIFT, limitando di fatto di molto gli affari internazionali degli istituti russi – imposte alla Russia da Unione Europea e Stati Uniti, nonché dalle forti dichiarazioni di condanna dell’invasione in Ucraina da parte di tutta la comunità occidentale. Insomma, il presidente russo ha mal digerito le ingerenze, più o meno indirette, sul suo ingiustificabile operato.
Come riportato da ‘Il Post’, Putin, parlando direttamente alla Nazione in un breve intervento trasmesso sulla televisione russa, ha spiegato che i paesi occidentali stanno prendendo provvedimenti ostili nei confronti dell’economia russa e che i funzionari dei principali paesi membri della NATO si sono permessi di fare dichiarazioni aggressive contro la Russia: “Ordino al ministro della Difesa e al Capo di stato maggiore di far preparare le forze di deterrenza dell’esercito russo a un regime speciale di servizio di combattimento”, ha sentenziato così sempre Putin durante il suo discorso.
Ma non è la prima volta che il presidente russo si esprime in questi termini contro la comunità internazionale e, in particolare, la NATO; aveva già parlato il 24 febbraio – ed intimato – di “ritorsioni mai sperimentate se qualcuno interferisce“, subito dopo la speciale “operazione militare” nell’area orientale dell’Ucraina, il Donbass.
Eppure, non è nemmeno la prima volta che il fantasma del nucleare aleggia sulle nostre teste. Cercando di incasellare e spiegare tutto tramite il comodo schema della Guerra Fredda, l’espressione “deterrenza nucleare” è frutto di quel periodo storico. Gli armamenti nucleari statunitensi e sovietici, infatti, erano costruiti e dispiegati in luoghi strategici con l’obiettivo di minacciarsi reciprocamente, scoraggiando un’aggressione nemica ed incutendo timore per le possibili conseguenze.
Per questo si parla anche di “Guerra Fredda”, proprio perché i conflitti, i combattimenti e gli scontri non avvenivano concretamente sul campo tra schieramenti nemici e raid aerei, piuttosto si preferiva una più subdola e sottile strategia della tensione, volta a mettere alla prova i nervi saldi delle Nazioni, in un più ampio gioco di guerriglia silente, un po’ come è avvenuto in Vietnam o in Cambogia. In altre parole, non si concretizzò mai un conflitto militare diretto tra USA e URSS, anche se, 60 anni fa, ci si andò molto vicino con la crisi missilistica di Cuba.
La meno nota come crisi di ottobre o crisi dei Caraibi del 1962, fu un serratissimo confronto tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica sul dispiegamento di missili balistici sovietici a Cuba, in risposta a quelli statunitensi schierati in Turchia, Italia e Gran Bretagna, quasi in prossimità alla cortina di ferro, ovvero quella linea di confine territoriale ed ideologica che divise l’Europa in due diverse zone di influenza politica: ad Ovest gli americani ed il Patto Atlantico, ad Est i sovietici ed il Patto di Varsavia.
La crisi missilistica avvenuta durante la presidenza di John Fitzgerald Kennedy è stata considerata uno dei momenti più critici della Guerra fredda: sarebbe bastato davvero poco per dare il via ad una guerra nucleare. Gli americani, infatti, avevano i comunisti in “casa” e questo non potevano tollerarlo. La deposizione dell’ex presidente cubano, Fulgencio Batista, nel 1959 per mano di Fidel Castro, che fece dell’isola caraibica l’unico baluardo saldo del socialismo in Occidente, destabilizzò non poco la Casa Bianca che perdeva potere e prestigio agli occhi del mondo.
Proprio per questo, gli americani pensarono ad una controffensiva per restaurare il regime di Batista all’interno del Paese: l’invasione della baia dei Porci fu il fallito tentativo di rovesciare il governo di Fidel Castro a Cuba, messo in atto dalla Central Intelligence Agency degli Stati Uniti d’America per mezzo di un gruppo di esuli cubani anticastristi, fatti sbarcare nella parte sud-ovest dell’isola, senza successo.
Come reazione alla fallita invasione della Baia dei Porci del 1961 e alla presenza di missili balistici americani Jupiter in Turchia, il leader sovietico Nikita Chruščёv – dalla linea politica estremamente più morbida rispetto al suo predecessore Stalin, anche se insomma non ci volesse molto – decise di accettare la richiesta di Cuba di posizionare missili nucleari sull’isola per scoraggiare una possibile futura invasione da parte degli americani.
In realtà,il governo russo temeva di partire in una posizione di svantaggio rispetto agli Stati Uniti se fosse scoppiato un conflitto che prevedeva principalmente l’utilizzo dell’arsenale nucleare; anche per questo, quindi, Chruščёv accettò la proposta cubana, in modo tale da essere pronto per qualsiasi eventualità. Stimo parlando di anni complicati in cui, malgrado si fosse già sperimentata tutta la potenza distruttrice della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki, solo una ventina di anni prima, si riusciva a comprendere fino in fondo la portata delle sole minacce del nucleare e, nonostante questo, ad andare dritti per la propria strada, a differenza di quello che sta accadendo ora, anche se per spudoratezza che per mancanza di consapevolezza.
Raggiunto l’accordo tra Chruščёv e Castro nel luglio 1962, la realizzazione delle strutture di lancio dei missili venne avviata poco dopo, nella segretezza generale dell’operazione, che non durò molto.
Il Cremlino, infatti, aveva negato la presenza di pericolosi missili sovietici a 90 miglia dalla Florida, ma un aereo spia Lockheed U-2 dell’United States Air Force produsse evidenti prove fotografiche della presenza di missili balistici a medio raggio (R-12) e intermedi (R-14). Gli Stati Uniti allestirono un blocco militare per impedire che ulteriori missili potessero giungere a Cuba, annunciando che non avrebbero consentito nuove consegne di armi offensive a Cuba e chiedendo che i missili già presenti sull’isola venissero smantellati e restituiti all’Unione Sovietica che a quel punto non poteva più nascondersi.
Il presidente Kennedy, infatti, in un appello televisivo del 22 ottobre, annunciò la scoperta delle installazioni e proclamò che ogni attacco di missili nucleari proveniente da Cuba sarebbe stato considerato come un attacco portato dall’Unione Sovietica e avrebbe ricevuto una conseguente risposta. Kennedy ordinò anche una quarantena navale su Cuba, per prevenire ulteriori consegne sovietiche di materiale militare.
La crisi raggiunse l’apice il 27 ottobre, quando un Lockheed U-2 statunitense – per iniziativa di un ufficiale locale – venne abbattuto su Cuba e un altro che volava sulla RSFS Russa venne quasi intercettato. Il generale Thomas S. Power, a capo del Comando Aereo Strategico USA (SAC), mise le sue unità in stato di allerta preparandole per un’immediata azione senza consultare la Casa Bianca, mentre i mercantili sovietici si stavano avvicinando alla zona di quarantena. La crisi, insomma, sembrava insanabile, mentre il resto del mondo restava col fiato sospeso.
Dopo un lungo periodo di stretti negoziati venne raggiunto un accordo tra John F. Kennedy e Nikita Chruščёv. Pubblicamente, i sovietici avrebbero smantellato le loro armi offensive a Cuba e le avrebbero riportate in patria, sotto verifica da parte delle Nazioni Unite e in cambio di una dichiarazione pubblica da parte statunitense di non tentare di invadere nuovamente Cuba. In segreto, gli Stati Uniti avrebbero anche acconsentito a smantellare tutti i PGM-19 Jupiter, di loro fabbricazione, schierati in Turchia, Italia e Gran Bretagna.
Le navi sovietiche tornarono indietro e il 28 ottobre Chruščëv annunciò di aver ordinato la rimozione dei missili sovietici da Cuba. Il Presidente Kennedy, soddisfatto dalla rimozione dei missili sovietici, ordinò anche la fine della quarantena su Cuba il 20 novembre.
Quando tutti i missili offensivi e i bombardieri leggeri Ilyushin Il-28 vennero ritirati da Cuba, si concluse formalmente il blocco il 21 novembre 1962. La tensione di quei mesi tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica e l’imminente utilizzo delle armi nucleari misero in evidenza la necessità di una rapida, chiara e diretta linea di comunicazione riservata e dedicata tra Washington e Mosca, per evitare escalation così delicate in futuro. Proprio per questo, venne realizzata la linea rossa Mosca-Washington, una linea diretta tra il Cremlino ed il Pentagono, per evitare il rischio di una guerra atomica per errore.
Sessant’anni dopo, non sembra essere cambiato molto in termini di strategie, minaccia e deterrenza. Tuttavia, se si pensa che questo sia un ritorno al passato, ci si sbaglia. Putin, così come la sua politica estera aggressiva sono il frutto della modernità, non una sua disfunzione. Volenti o nolenti la modernità non deve essere per forza sinonimo di progresso, benessere e sviluppo, si correrebbe, in questo caso, di nuovo il rischio di assumere un atteggiamento “positivistico” – nel senso filosofico del termine – che portò poi alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento ad un’incontrollata e cieca fede nel progresso e nella ragione dell’uomo, sfociata poi nella Prima Guerra mondiale.
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