La moda sta distruggendo il pianeta, agghiaccianti immagini dal Sud America: cosa succede?

Scegli, compra, usa e getta. E poi? Ricomincia! Non è un segreto che l’abbassamento della qualità (forse?) dei beni di consumo abbia portato ad una loro fruizione maggiore, sviluppando nelle persone un uso ossessivo-compulsivo dello shopping. Insomma, non si tratta più, o non solo di necessità, ma di stimoli continui in una società sovraeccitata e sempre più veloce come la nostra. Il disagio per una vita lenta si colma con la rapidità con cui si acquista, un palliativo a rilascio graduale che colma l’inadeguatezza personale.

Donne nel deserto di Atacama

Sempre più ricerche affermano, infatti, i benefici dello shopping terapeutico: un articolo di un paio di anni fa su ‘Il Messaggero’ ha ospitato una ricerca condotta da a un pool di ricercatori di Taiwan e Australia su 1.900 volontari di entrambi i sessi e pubblicata sulla rivista specializzata “Journal of epidemiology and community health” che ha evidenziato come: “Lo shopping è terapeutico: abbassa ansia e stress e aiuta a mantenersi in forma. Lo shopping cura la mente e l’animo”.

Ma se lo shopping fa bene all’anima, si può dire lo stesso per il Pianeta? Le proteste contro il fast fashion, infatti, montano di anno in anno, mostrando rischi crescenti per il nostro ecosistema. Per chi non lo sapesse, il fast fashion è un termine coniato da poco ed usato dai rivenditori di moda per esprimere un design che passa rapidamente dalle passerelle alla strada, influenzando le attuali tendenze della moda. L’industria della moda si inchina di fronte al consumatore, cercando di rispondere ai mutevoli gusti degli acquirenti il più rapidamente possibile in una vera e propria corsa contro il tempo.

In poche parole, si intende un settore dell’abbigliamento che realizza abiti di bassa qualità a prezzi super ridotti e che lancia nuove collezioni continuamente e in tempi brevissimi. Il colosso cinese “Shein“, che ha superato questa estate addirittura Amazon come App per lo shopping più scaricata sia da Android che da iOS negli Stati Uniti, è l’emblema del fast fashion. Vestiti già a prezzi ridicoli, che non hanno nulla da invidiare agli originali a cui si ispirano, vengono ulteriormente scontati, tramite un efficace sistema di fidelizzazione dei clienti con punti e codici.

Tuttavia, per garantire prezzi invitanti ai clienti è inevitabile dover abbassare i salari dei lavoratori, anche nel cuore della democratica e civile Europa. A Leicester, il rivenditore britannico online Boohoo è stato accusato, infatti, di sfruttare i lavoratori: “le accuse di condizioni di lavoro inaccettabili e di retribuzione inadeguata dei lavoratori non solo sono fondate, ma sono sostanzialmente vere”, si legge nel rapporto Levitt pubblicato dal Daily Mail. Ma quanto è sostenibile ancora questa condotta?

Colline di cotone nel deserto di Atacama: il Cile lancia l’allarme

Già un anno fa il Guardian aveva denunciato gli effetti deleteri del fast fashion: ” Mentre le cifre sono dibattute, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha calcolato che l’industria della moda produce il 10% delle emissioni globali di anidride carbonica ogni anno, mentre si stima che utilizzi circa 1,5 trilioni di litri di acqua all’anno. Nel frattempo sono aumentate le preoccupazioni per l’inquinamento, dai rifiuti chimici alle microplastiche. Tra gli sviluppi che si ritiene stiano esacerbando i problemi, c’è il fast fashion – vestiti a buon mercato acquistati e messi da parte in rapida successione quando le tendenze cambiano – come il bikini da una sterlina venduto da Missguided – e-commerce di vestiti, ndr- l’anno scorso”.

E in questi giorni anche in Daily Mail è tornato sull’argomento. I funzionari dell’ambiente del Cile hanno chiesto, infatti, al Regno Unito di assumersi la responsabilità ed impedire che migliaia di tonnellate di vestiti provenienti dall’Europa e dagli Stati Uniti vengano scaricati illegalmente nel deserto di Atacama.

Maisa Rojas, il ministro dell’ambiente entrante del Cile nonché professoressa presso il dipartimento di Geofisica dell’università del Cile, ha affermato che l’industria del fast fashion, alimentata dalla domanda occidentale di abbigliamento a buon mercato, alla fine porta enormi montagne di tessuti di scarto che vengono bruciati nei deserti del Sud America. Parlando alla BBC, ha avvertito che la pratica ha “conseguenze ambientali per l’intero pianeta” e ha invitato la Gran Bretagna a porre fine allo scandalo.

Ma non è per nulla semplice. Negli ultimi anni la domanda ha raggiunto vette inverosimili e senza controllo, incoraggiando così i produttori di articoli economici in Cina e Bangladesh a produrre in eccesso. Ma la richiesta esorbitante non può non avere effetti nel resto del mondo. Una volta che gli articoli vengono esportati dalle fabbriche in Asia ai mercati dell’Europa occidentale e del Nord America, incluso il Regno Unito, e venduti a prezzi bassissimi, gli invenduti vengono poi acquistati da commercianti tessili in paesi meno sviluppati, come Cile e Uganda, che poi tentano di commerciarli nei mercati nazionali o di contrabbandarli.

Come sempre spiegato dal Daily mail, circa 60.000 tonnellate di vestiti arrivano ogni anno al porto di Iquique, nel Cile settentrionale, nella zona franca di Alto Hospicio, dove vengono acquistati da mercanti di abbigliamento o contrabbandati altrove. Ma almeno 39.000 invenduti finiscono nelle discariche nel deserto: senza alcun mezzo legale di smaltimento, le enormi pile di tessuti che rovinano il paesaggio circostante vengono bruciate, rilasciando fumi tossici e inquinando il suolo.

Per far fronte all’emergenza, la Rojas ha rivolto un appello ufficiale al governo britannico tramite la BBC: “Non è facile conciliare così tanti interessi come vietare lo scarico di indumenti usati. Non è fattibile. Gli uomini d’affari devono fare la loro parte e smettere di importare rifiuti, ma anche i paesi sviluppati devono assumersi le proprie responsabilità. Ciò che sta accadendo qui in Cile ha conseguenze ambientali per l’intero pianeta”.

Inquinamento fast poco fashion

Ma quali sono le conseguenze ambientali ipotizzate dalla Rojas? Facciamo un punto sulle cifre.

Ogni anno, secondo il Daily Mail, l’industria del fast fashion richiede 93 miliardi di metri cubi d’acqua, sufficienti per soddisfare le esigenze di circa 5 milioni di persone. Gli ambientalisti affermano che l’industria è responsabile di circa il 20% dell’inquinamento delle acque industriali a causa del trattamento e della tintura dei tessuti; ma ci sono anche problemi con i materiali e i proventi, come la produzione di cotone, che utilizza il 6% dei pesticidi del mondo e il 16% degli insetticidi.

Ma oltre alla produzione, già di per sé controproducente, è importante considerare un altro aspetto, la grande quantità di rifiuti tessili, dettato dallo scarto industriale ed umano: la quantità di tessuti prodotti a livello globale per persona è più che raddoppiata da 5,9 kg a 13 kg nel periodo 1975-2018 e sempre più persone del mondo “civilizzato” buttano la maggior parte dei vestiti acquistati, solo dopo essere stati indossati appena una manciata di volte. Passata la moda, svanisce il valore del bene, pronto ad essere rimpiazzato da un altro, prima ancora che il nostro desiderio possa germogliare.

Attenzione, non stiamo parlando di automi incapaci di intendere e di volere e totalmente sopraffatti da una sorta di teoria ipodermica del consumo, ma piuttosto di una più collaudata forma di piacere proprio nell’atto dell’acquisto che ci gratifica e di cui non riusciamo più a fare a meno. Si tratta di un trend consolidato e il Daily Mail questo lo sa molto bene: “Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2019, la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata tra il 2000 e il 2014 e l’industria è “responsabile del 20% dello spreco totale di acqua a livello globale”. Per realizzare un singolo paio di jeans sono necessari 7.500 litri (2.000 galloni) di acqua”.

Tuttavia, malgrado le montagne di vestiti, sintetici o trattati, inquinino l’ambiente, rilasciando sostanze nocive nell’aria o nei canali sotterranei dell’acqua ed impiegando più di 200 anni per biodegradarsi – tossiche quindi quanto le gomme o la plastica – alcune delle persone più povere di questa regione di 300.000 abitanti si affidano agli usa e getta per vestire se stessi e le loro famiglie, frugando nelle discariche per trovare cose da vendere nel loro quartiere. E anche i migranti che transitano nel deserto, magari provenendo da paesi più miti e caldi, cercano indumenti più pesanti per sopravvivere alle temperature gelide che accompagnano la notte ad Atacama.

E’ possibile un’industria della moda più sostenibile?

Ma il mondo del fast fashion non sembra voler rallentare la propria produttività, per questo serve un’azione intestina se si vuol apportare qualche significativo cambiamento.

Un portavoce del Defra (Dipartimento dell’ambiente, dell’alimentazione e degli affari rurali del Regno Unito) dopo la denuncia della futura ministra Rojas, ha dichiarato: “Vogliamo vedere un’industria della moda più prospera e sostenibile mentre ricostruiamo al meglio il Paese dopo la pandemia” – ha riportato il Daily Mail – “Il settore sta apportando miglioramenti per ridurre il proprio impatto sull’ambiente, ma sappiamo che c’è ancora molto da fare. Questo è il motivo per cui stiamo adottando misure per affrontare il fast fashion in modo da poter ridurre gli sprechi tessili e migliorare il riutilizzo e il riciclaggio dei nostri vestiti. Il nostro nuovo sistema elettronico di tracciabilità dei rifiuti ci aiuterà a contrastare ulteriormente le esportazioni illegali di rifiuti di ogni tipo”.

Un portavoce del gruppo Boohoo, che possiede una vasta gamma di marchi tra cui Pretty Little Thing, Oasis e Warehouse, dopo gli scandali che l’hanno visto coinvolto, ha dichiarato: “Il nostro modello di verifica e riproduzione fa si che possiamo prevedere con maggiore precisione la domanda dei clienti per i nostri vestiti rispetto ai rivenditori tradizionali che producono collezioni stagionali. Di conseguenza, possiamo ridurre significativamente la quantità di scorte invendute”.

Insomma, la strategia scelta dal gruppo sembra quella di voler giocare d’anticipo sui consumatori, regolando maggiormente l’offerta in base ad una domanda più profilata: “Facciamo parte di Textiles – iniziativa di collaborazione volontaria che mira ad accelerare il movimento dell’industria tessile verso una limitazione dell’impatto che gli indumenti ed i tessuti per la casa hanno sul cambiamento climatico 2030, ndr – “e stiamo lavorando con una serie di organizzazioni per affrontare il problema dei rifiuti tessili, incluso il consolidamento delle raccolte dai nostri fornitori, e stiamo lavorando per migliorare la tracciabilità dei nostri prodotti”.

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