L’impressione avuta inizialmente dagli esperti sull’origine della variante Omicron sembra trovare nuovi riscontri.
Tulio De Oliveira, il virologo sudafricano che ha individuato per primo la variante con più di 30 mutazioni nel codice della proteina spike, sostiene infatti che l’incubazione è avvenuta con grande probabilità nel corpo di una persona fortemente immunodepressa, quasi certamente affetta da HIV.
Questa condizione comporterebbe un contagio prolungato di coronavirus in quanto il paziente avrebbe fatto un’enorme fatica per eliminare il virus: uno scenario che faciliterebbe l’insorgere di mutazioni.
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Tulio De Oliveira, come riporta anche il Los Angeles Times, si è detto assolutamente non sorpreso da questa nuova variante Omicron. Il virologo ha infatti più volte segnalato la necessità di vaccinare le popolazioni dell’Africa sub-sahariana, dove vivono circa 8 milioni di persone affette da HIV.
Proprio questa platea di immunodepressi non vaccinati, per lo più di giovane età, rappresentano un serbatoio eccezionale per la formazione di nuove varianti che presentano moltissime mutazioni sulla proteina spike, ovvero la “chiave” che utilizza il coronavirus per entrare nel nostro corpo e far partire l’infezione.
Le mutazioni, infatti, possono potenzialmente abbassare la protezione del vaccino e rendere il virus molto più contagioso. Non è un caso se nella provincia di Gauteng, ovvero il primo luogo dove è stato individuata la variante Omicron, risiede circa il 20% dei 7,5 milioni di sudafricani affetti da HIV.
“L’Africa è stata completamente lasciata indietro”, afferma Tulio De Oliveira in un saggio redatto assieme ad altri tre colleghi sudafricani, pubblicato anche sulla celebre rivista Nature.
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I vaccini e i test per il riscontro del Covid-19 restano prerogativa dei Paesi ricchi del pianeta: basti pensare che se il 40% della popolazione mondiale ha completato il ciclo vaccinale contro il COVID-19, il tasso per l’Africa è inferiore al 7%.
In Sudafrica siamo al 24%, anche se la vaccinazione ha riguardato soprattutto gli anziani: l’80% della popolazione con HIV ha meno di 50 anni, pertanto ad oggi la maggior parte di coloro che possono contrarre un’infezione prolungata da coronavirus non risulta protetta.
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