Quando Adelina arrivò in Italia nel 1996 non era che una ragazzina, una ventenne che si affaccia al mondo per la prima volta e spera di poter fare fortuna altrove, trovando conforto e sollievo in una terra da chiamare “casa”, ma per lei non c’è mai stata una casa veramente.
Illusa e portata con la forza dai suoi protettori, una banda di persona appartenenti alla mafia albanese, qui in Italia a prostituirsi, Adelina ha subito dall’inizio le angherie e le vessazioni da parte di chi mal sopportava la sua liberta, la sua indipendenza e la sua intraprendenza, nonostante tutto.
Avrebbe potuto spegnersi ed accettare una vita che non aveva voluto, mentre riceveva punizioni continue sul suo corpo che portava i segni di quegli anni di torture, come quella volta che per farla tacere una volta per tutte le procurarono delle ferite così profonde sulle cosce, da farla urlare di dolore quando aggiunsero sopra il sale. Ma lei non si arrese mai e fece delle sue cicatrici uno strumento per lottare ancora ed ancora, in nome anche di chi non aveva la forza di farlo.
Il fallimento dello Stato italiano
Grazie alle sua testimonianza quaranta delle persone appartenenti al giro della prostituzione albanese erano state arrestate, altre ottanta denunciate, e si è riusciti a fare luce su una delle piaghe più dolorose degli ultimi trent’anni: la tratta di giovani donne dell’est rapite per far di loro delle prostitute.
Adelina non voleva nulla se non dimenticare il suo passato tramite la cittadinanza italiana; essere riconosciuta come cittadina italiana sarebbe stato solo il minimo per lei che ha contribuito a smantellare buona parte della mafia albanese, invece è stata dimenticata e il suo sogno non si è mai avverato.
La sua nazionalità era racchiusa in tre x, simbolo degli apolidi. All’ultimo rinnovo del permesso di soggiorno le è stato tolto lo stato di apolide per esserle riconosciuta la cittadinanza, sì, ma quella albanese: l’ennesimo affronto per la 46enne, che aveva il terrore di tornare nel suo paese natale. Aveva dichiarato apertamente, infatti, di non voler tornare in Albania, neanche da morta.
Così Adelina, nel suo estremo gesto di libertà, lo scorso sabato ha deciso di togliersi la vita, lanciandosi da un cavalcavia ferroviario di Roma, Ponte Garibaldi, pur di non tornare in Albania.
Le amiche di Adelina non si arrendono
In un’intervista rilasciata a Fanpage.it, Marina Brasiello, presidente dell’Associazione Vittime di violenza – IO NO e amica di Adelina Sejdini ha raccontato: “Era sola, ha dato la vita per lo Stato italiano e le istituzioni l’hanno abbandonata. L’unica cosa che chiedeva era la cittadinanza italiana. Vogliamo e pretendiamo dalla prima carica italiana che sia pagato il funerale e che sulla bara ci sia quel foglio”
Un ultimo riconoscimento lecito quello chiesto dalle amiche di Adelina che non si arrendono. Hanno scritto anche al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella per farle ottenere, comunque la cittadinanza italiana, che meritava già in vita: “Voleva solo la cittadinanza, abbiamo lottato come lupi, ma non ci siamo riusciti. Aveva avuto un coraggio estremo, ha denunciato i suoi aguzzini e li ha fatti arrestare. Poi è arrivato il cancro, un’altra battaglia da combattere” – continua Marina -“Adelina, che ha dato la vita per l’Italia, è stata lasciata sola dalle istituzioni. Un prete le aveva dato una stanza, noi le pagavamo il taxi per andare a fare la chemioterapia perché non poteva muoversi. Ha sgominato con la sua determinazione la banda che gestiva il racket della prostituzione, era giusto che avesse almeno il riconoscimento della cittadinanza italiana”
“Adelina amava l’Albania – spiega la Brasiello – ma quello era per lei il paese che l’aveva distrutta. Senza la cittadinanza italiana, inoltre, non poteva fare richiesta per la 104 – a causa del cancro – né fare la richiesta per una casa popolare o altri aiuti”. Per questo Adelina, in preda alla disperazione, sabato 28 ottobre era andata al Viminale dandosi fuoco in segno di protesta, ma anche in quel caso è stata ignorata, come se le sue denunce fossero dovute senza dover pretendere nulla in cambio.
La commemorazione a Ponte Garibaldi
“Mi hanno chiamata per dirmi cosa era successo, sono andata in ospedale a vedere come stava ma per la questione del Covid non sono potuta andare a parlare con lei. Pensavo che la sua fosse solo una dimostrazione. E invece poi si è tolta la vita. Noi, amiche di Adelina, siamo arrabbiate, furiose: aveva diritto alla cittadinanza, ha dato la vita per far arrestare quegli assassini. Ha lottato, e ora che non può più noi lotteremo per lei. Su quella bara vogliamo il foglio dal presidente della Repubblica, come simbolo di giustizia per le donne abbandonate dallo Stato”.
In memoria di Adelina, si terrà il 20 novembre una commemorazione a Ponte Garibaldi, per fa sì che il suo gesto non venga dimenticato così facilmente da chi doveva difenderla, ed invece, l’ha abbandonata: “Andremo avanti per lei e per tutte le ragazze che passano l’inferno. Non vogliamo più sentire scuse. Adelina non meritava questa fine”