Le temperature record dello scorso luglio, quando Siracusa con i suoi 48.8 gradi si è accaparrata il titolo di città più calda d’Europa, e le forti piogge torrenziali di fine estate pongono sempre in questo periodo l’accento sulla questione climatica e sulla sensibilizzazione ecologica. C’è chi teme che il punto di non ritorno per la Terra sia più vicino di quanto si possa pensare, c’è chi minimizza invece definendo catastrofisti, o più sofisticatamente “Gretini”, i primi. Tuttavia, tutto passa dalle foreste, indicatore fondamentale della salute del nostro Pianeta.
Qualche giorno fa Reddit ha “regalato” un’ottima mappa sulla variazione annuale della superficie forestale (che potete vedere come immagine in evidenza a corredo del pezzo).
La legenda si basa sulla presenza di una determinata quantità di ettari di foresta all’interno di un paese: da -100.000 a 100.000 (giallo chiaro), ad esempio, include un cambiamento di zero ettari di foresta, inglobando però nella stessa lista paesi come la Groenlandia, il Canada, la Somalia ed il Mali. Se da una parte non si sono persi ettari, dall’altra, tuttavia, non si è nemmeno fatto nulla per aggiungerli. Insomma, un paese, per essere “verde”, deve aumentare la propria copertura boschiva di almeno 100.000 ettari, ma la Cina ha fatto molto di più, stupendo non poco.
Il boom cinese degli alberi
Con i suoi 1.94 milioni di ettari l’anno, la Cina è il paese con la più forte espansione boschiva, accrescendo la sua superficie dal 12% degli anni Ottanta al 23,04% del 2020. Tuttavia, il boom di alberi in uno dei paesi più industrializzati al mondo potrebbe essere legato più ad una risoluzione efficace e rapida del cambiamento climatico che ad una vera attenzione al problema, più alberi, infatti, significa una maggiore riduzione dei gas serra dell’aria e desertificazione del suolo, ma in parte a discapito della natura stessa. La tendenza a creare foreste slegate alla biodiversità del luogo per una sicura produzione di legname, rischia di apportare a lungo termine in realtà benefici davvero esigui per una riforestazione già di per sé vulnerabile; in altri termini, bisognerà vedere quanto effettivamente resisteranno questi alberi in un ambiente a loro estraneo, se non del tutto ostile, da qui ai prossimi trent’anni.
Ma c’è un altro ma. La mappa prende in considerazione l’area assoluta e non la proporzione della superficie terrestre del paese in esame. In questo modo non c’è dubbio che Cina o India, seconda con 266.000 ettari in più, siano sempre tra i primi posti, per via delle loro vaste aree di terra, un po’ come la Russia in verde sbiadito, grazie alla Siberia che è già interamente una foresta, nonostante sia stata vittima nelle ultime estati di incendi devastanti che hanno allarmato Greenpeace, come l’ultimo in Jacuzia il mese scorso; il più grande dei roghi boschivi si è sviluppato su una superficie di 1,5 milioni di ettari con un’emissione record di 505 megatoni di anidride carbonica.
L’ecodicio brasiliano
L’attenzione, però, resta sempre altissima in Brasile che, tra incendi e deforestazione incontrollata da parte di Bolsonaro della foresta amazzonica, è il peggiore dei paesi in esame, con una perdita annuale di 1,45 milioni di ettari. In dieci anni la foresta amazzonica ha perso una superficie pari a tutta l’Italia e a luglio 2020, solo nell’Amazzonia brasiliana, gli incendi sono aumentati del 28% rispetto al 2019 e ciò che è peggio è che la maggior parte sono di origine dolosa.
Non è la siccità, ma l’uomo a bruciare terre indigene o di pubblico demanio per espandere le piantagioni destinate alla produzione di mangimi o per fare spazio ai pascoli di bovini. Ma la contrazione della foresta potrebbe causare un irreversibile cortocircuito: ridotta e degradata com’è, è più soggetta anche ad incendi causati dalla siccità, che pesano sulla biodiversità della foresta pluviale stessa, rendendola incapace di generare piogge, raffreddare la Terra, assorbire gas serra ed immagazzinare carbonio, tutte attività a serio rischio senza il vapore e le piogge prodotte dai propri alberi.