La foto ha segnato un’epoca intera, entrando a pieno titolo, con la sua inaudita drammaticità, nella storia contemporanea. E in occasione dell’insediamento del califfato islamico sorge quasi del tutto naturale raffrontarla allo scatto dell’uomo caduto dal vano dell’aereo nel tentativo di fuggire dall’Aghanistan
Un volo di soli dieci secondi, dritto verso l’eternità.
Ma non è solo questo quello che ha immortalato Richard Drew, il fotografo dall’Associated Press che l’11 settembre del 2001 alle 9:41 scattando la foto al “falling man” delle torri gemelle fotografò, in realtà, la crisi della nostra contemporaneità nella sua brutalità.
Una foto che nella sua tragica bellezza non aveva altro destino se non quella di diventare il simbolo di quel terribile evento.
Un destino insolito anche per lo stesso fotografo che, trovandosi a New York per fotografare dei corpi, quelli di alcune modelle premaman, si ritrovò a fissare per l’eternità l’attacco al cuore della Grande Mela proprio immortalando dei corpi in caduta.
Non era la prima volta che Drew si ritrovava ad immortalare eventi senza precedenti.
Quando era giovane, di appena 21 anni, il fotografo si trovava proprio dietro a Bob Kennedy quando il politico venne colpito alla testa.
Il reporter era talmente vicino alla macchina che la giacca si sporcò di sangue e, anziché darsi alla fuga, saltò sul tavolo scattando una foto al corpo di Kennedy con gli occhi ancora aperti, ed altre di Ethel Kennedy che, poggiata sul corpo del marito, chiedeva disperatamente ai fotografi di interrompere gli scatti. Ed infatti Drew si fermò.
Uno scatto, quello del falling man, che per una tragica ironia del destino collettivo richiama quanto accaduto poche settimane fa in Afghanistan,
quando alcuni cittadini disperati per la presa di potere dei talebani decisero di attaccarsi a un aereo in partenza precipitando al momento del decollo nel vuoto.
E non è un caso che proprio nell’anniversario di questa tragedia i talebani abbiano deciso di ufficializzare l’insediamento del califfato islamico.
Una provocazione forte ad un Occidente che, con la questione, deve ancora realmente fare i conti.
I ‘falling man’ dell’Afghanistan e di New York
Due moderni icaro in volo verso la morte, entrambi accomunati sì dalla disperazione, ma anche da una tragica ricerca della libertà che non richiede compromessi.
Gli scatti non sono certo raffrontabili per intensità delle immagini, ma racchiudono quell’assenza di senso che solo eventi collettivi di questo tipo possono avere.
Una mancanza di senso che da le vertigini, le stesse che può aver provato l’uomo che, con coraggiosa rassegnazione, preferì il vuoto alla sorte imminente.
Quei corpi in volo che si lanciavano prima del crollo della torre rimarranno per sempre il simbolo di una ferita che, a distanza di 20 anni, è tutta contemporanea, attuale.
E che non smette di bruciare.
In molti hanno fantasticato su chi potesse essere quell’uomo il cui volo, caratterizzato quasi da un’assurda leggiadria, rimarrà impresso nella memoria collettiva.
In molti, probabilmente, hanno fatto la stessa cosa guardando lo scatto degli uomini caduti dagli aerei afghani pur di fuggire ai talebani.
Che lavoro facevano, quali erano i loro sogni e le loro ambizioni e quali sono stati i loro ultimi pensieri, chi erano le loro famiglie.
Ma la vera tragedia è quasi quella paradossale mancanza di senso dietro a tanto dolore.
Come una ventata gelida in piena faccia, l’attentato alle torri gemelle ha ripresentato il conto del Reale, che Mark Fisher, parafrasando lo psicoanalista francese Lacan, definisce “una X non rappresentabile, il vuoto traumatico che può essere soltanto intravisto tra le spaccature e le contraddizioni della realtà apparente”.