La tensione fra Gerusalemme e Israele continua ad essere alle stelle, soprattutto a seguito degli ultimi scontri fra le forze dell’ordine israeliane e i manifestanti palestinesi in occasione del Ramadan
Invece di favorire un brevissimo armistizio, il periodo del Ramadan ha acuito e acceso ulteriormente gli scontri fra Israele e Palestina. Una settimana di tensione, in particolare nella Città Santa e nella Cisgiordania occupata, che è culminata in uno scontro brutale fra la polizia israeliana e i manifestanti palestinesi.
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Gli scontri sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme
Gli scontri sono avvenuti, in particolare, sulla Spianata delle Moschee e nei pressi di Porta Damasco, nella zona est di Gerusalemme. I manifestanti sono insorti anche a seguito della protesta per gli sfratti dalle proprie abitazioni imposte a molte famiglie palestinesi. Dopo delle manifestazioni, culminate poi negli scontri con la polizia, la magistratura israeliana ha posticipato di un mese l’udienza che era programma per la giornata di oggi proprio sugli sgomberi.
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La tensione si è fatta altissima dopo il lancio di alcuni razzi partiti da Gaza al centro di Israele dopo che Hamas aveva dato l’ultimatum al governo israeliano chiedendo che venissero ritirate le truppe collocate nella zona della Spianata delle Moschee entro le ore 18 di oggi.
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Il problema degli sfratti delle famiglie palestinesi e degli attacchi ai luoghi di culto
In merito alla questione il portavoce della brigata militare di Hamas, la Ezzedin al-Qassam, ha voluto chiarire che “Si è trattato di una risposta all’aggressione e ai crimini contro la città santa e alle prevaricazioni contro il nostro popolo nel rione di Sheikh Jarrah e nella moschea al-Aqsa”.
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Nella zona di Gerusalemme Est, come riporta l’Internazionale, vivono almeno 250mila palestinesi, e l’esplosione di questa ondata di violenze è da ricondurre all’attacco (mosso da motivazioni di natura ideologica) inferto al quartiere storico Sheikh Jarrah da parte di un gruppo israeliano.
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In ballo una questione quanto mai vitale: quella delle abitazioni di 13 famiglie palestinesi. A partire dal 1948 i palestinesi che hanno fatto ritorno dopo l’espulsione a Gerusalemme Est non hanno potuto godere, di fatto, di alcun diritto, soprattutto quello di riappropriarsi di una serie di abitazioni che furono occupate dagli ebrei prima di quell’anno.
Ed è proprio nella giornata di oggi, come prima anticipato, che la corte suprema israeliana si sarebbe dovuta esprimere in merito al tentativo di cacciare queste famiglie. Ovviamente, questa non è l’unica questione in ballo, ma è stata la goccia che ha fatto traboccare un vaso ricolmo di risentimenti religiosi, storici, civili ed etici.
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Fra questi, gli attacchi ai luoghi sacri islamici come la moschea Al Aqsa e la Cupola della roccia, dove il 7 maggio gli scontri sono stati a dir poco violenti. E infine, come già si anticipava poc’anzi, il pressing da parte delle autorità israeliane di tenere distaccate le questioni di Gerusalemme dalle restanti problematiche afferenti all’interezza del conflitto israelo-palestinese.
Il contesto politico israeliano, di certo, non è di aiuto alla risoluzione di nessuno di tali conflitti o anche ad un solo aspetto di essi. Le forze politiche di estrema destra legate a Benjamin Netanyahu forzano la mano affinché i palestinesi vengano cacciati da Gerusalemme. E “la caccia all’uomo”, come l’ha definita l’Internazionale, condotta da parte di alcuni fondamentalisti religiosi ai danni dei palestinesi ne è il più palese esempio, considerando che tali persecuzioni sono rimaste del tutto impunite.
In Palestina, invece, Abu Mazen, il presidente in carica, sfrutta questa situazione di estremo disagio sociale a suo vantaggio al fine di prorogare il più possibile il suo mandato con la scusa delle eventuali difficoltà logistiche di un’elezione a Gerusalemme Est.