Lunedì primo febbraio 2021 i militari, guidati dal Capo di Stato Maggiore, il generale Min Aung Hlaing, hanno preso il potere in Myanmar con un colpo di stato, impedendo così l’insediarsi del nuovo Parlamento eletto nel novembre 2020.
In quelle elezioni il partito espressione delle forze armate (l’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo) era stato sonoramente sconfitto dalla Lega Nazionale per la Democrazia guidata (sin dal 1988) da Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la Pace e, dalle elezioni del 2015, leader de facto del Paese.
Il Myanmar (noto anche come Birmania), ex colonia britannica, stava sperimentando dal 2011 un complicato passaggio alla democrazia dopo essere stato guidato, fin dal 1962, da varie giunte militari. L’attuale Costituzione birmana, modificata dalla giunta militare nel 2008, assegna già un ruolo di primissimo piano al Tatmadaw (l’esercito birmano) che ottiene di diritto la nomina di tre importanti ministeri (Difesa, Interno e Frontiere) e il 25% dei seggi parlamentari che garantiscono alle forze armate il potere di veto su qualsiasi modifica costituzionale (per modificare la Carta sono infatti richiesti oltre il 75% dei voti parlamentari).
Evidentemente le garanzie costituzionali e la forte influenza (anche economica) sul Paese non sono state ritenute sufficienti alla luce dei risultati elettorali, così, dopo aver accusato la Lega Nazionale per la Democrazia di brogli elettorali (non rilevati dagli osservatori internazionali), l’esercito ha optato per il colpo di mano.
Aung San Suu Kyi è stata quindi arrestata (condizione che è stata, dalla sua discesa in politica nel ‘88, più la norma che l’eccezione) e rimossa dalla carica di “Consigliera di Stato”, una carica che si era creata per aggirare il divieto costituzionale che impedisce di accedere alla presidenza a chiunque sia, o sia stato, sposato con un cittadino straniero (norma creata ad hoc contro di lei, sposata con lo storico inglese Michael Aris, morto nel 1999).
L’esercito intanto, tramite il generale Min Aung Hlaing, ora nuovo capo dell’esecutivo, ha comunicato, oltre all’imposizione per un anno dello stato d’emergenza, di voler promuovere «un autentico sistema democratico multipartitico» e delle nuove elezioni, pur senza specificare quando intenda tenerle e come implementare il “nuovo” sistema.
Sembra dunque che lo Stato del sudest asiatico sia di fronte a un “ritorno al passato” e che il fragile processo di democratizzazione di questi anni, avviato con molte difficoltà e compromessi (si veda ad esempio la difesa fatta in sede internazionale dalla stessa Suu Kyi dell’operato dell’esercito birmano contro la minoranza islamica dei rohingya), abbia subito in pochi giorni una forte battuta d’arresto.