Intervistato da ‘Il Messaggero’, il direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito mette in guardia sull’alta potenzialità di del contagio fra i giovani under 30. Uno sguardo alla storia e alla situazione italiana attuale
In epoca di Covid-19 l’attenzione mondiale si è concentrata tutta sulla ricerca di un nuovo, indispensabile vaccino in grado di debellare il virus che ha messo in ginocchio tutto il pianeta, nessuno escluso. Nella giornata mondiale contro l’Aids, però, è sacro santo ricordare come la diffusione di quel virus rappresentò, negli anni 80, una piaga pericolosa e di gran lunga più letale di quella che stiamo vivendo oggi.
Era il 1981 quando da oltre oceano giunsero in Italia notizie di una nuova malattia che stava contagiando alcuni pazienti negli ospedali americani: tutti giovanissimi e quasi sempre in salute, iniziarono a manifestare Pneumocystis Carinii, una tipologia di polmonite che tendenzialmente colpiva solo neonati prematuri e persone fortemente immunodepresse. La questione attirò l’attenzione di Michael Gottlieb, ricercatore dell’Università della California, che stava svolgendo delle ricerche cliniche sui deficit del sistema immunitario. Attraverso la cooperazione con i Centers for Disease Control and Prevention, iniziarono ad essere segnalati anche nuovi casi di pazienti che soffrivano di un raro tumore dei vasi sanguigni, il sarcoma di Kaposi. I dati vennero pubblicati all’interno del loro bollettino epidemiologico, ma ciò che attirò inizialmente l’attenzione dell’opinione pubblica era il fatto che queste patologie colpivano pazienti che erano tutti omosessuali attivi. In quell’anno, infatti, il New York Times titolò un pezzo così: “Raro cancro osservato in 41 omosessuali”. Lo stigma e le discriminazioni che colpirono la comunità omosessuale americana fu senza pari, al punto che furono in tanti a dichiarare che si trattasse di una sorta di “punizione divina” per i peccati commessi. Poco dopo, però, iniziarono a manifestarsi anche casi di eterosessuali, fra cui il primo europeo in Inghilterra. Nel giro di due anni, venne fuori una verità che sconvolse il mondo: si tratta di un virus altamente trasmissibile, che venne inizialmente denominato “sindrome da immuno-deficienza acquisita”; fu nel 1986 che un comitato internazionale fornì un nuovo nome per indicare il virus dell’Aids, indicandolo solo come Hiv, ovvero “Virus dell’immunodeficienza umana”.
Era sempre il 1981 quando Giuseppe Ippolito, ora direttore scientifico dell’ospedale Spallanzani di Roma, si specializzò in malattie infettive. Come riporta nell’intervista, inizialmente in Italia la problematica non venne recepita a dovere, tanto da essere relegata, come dice lui, ad “un’americanata”. Ma non lo era per la sua equipe di ricerca, che iniziò a comprendere la gravità del fenomeno che venne testimoniata da un aumento esponenziale dei casi nel 1984: “I reparti vennero occupati da pazienti giovani e gravi per i quali non c’ erano trattamenti efficaci. Solo allora la politica ebbe percezione del problema che aveva sottovalutato nonostante le richieste di medici e associazioni dei pazienti”.
Fortunatamente, quella che sembrava una malattia contro la quale non si potevano avere speranze, è stata fortemente ridimensionata: “Siamo ben lontani dai dati di un tempo” – ha dichiarato Ippolito – “Il numero di nuove infezioni da Hiv è due terzi di quello del 2012. Questo è motivo di soddisfazione. La diminuzione è stata maggiore negli ultimi due anni nonostante l’ assenza di campagne di prevenzione“. L’infezione, tuttavia, sembra essere sempre più diffusa fra i giovani: “Le nuove diagnosi sono in maggioranza relative alla fascia di età 25-29 anni come mostrano i dati dell’ Istituto superiore di sanità” afferma Giuseppe Ippolito, che specifica “C’ è la percezione di una malattia che non è più mortale, che è curabile. Il tutto associato ad una crescente irresponsabilità dei giovani”.
Sebbene, dunque, i farmaci cosiddetti ‘retrovirali’ siano stati in grado di curare una malattia che aveva, in alcuni casi, la mortalità quasi al 100%, essa non è stata per nulla sconfitta, e l’aspetto che desta maggiormente preoccupazione è la non curanza dei giovani che la considerano come un qualcosa di lontano; ed è proprio a loro che Ippolito lancia un appello finale “Responsabilità e rispetto. Servono per tutte le malattie infettive, per l’ Aids come per il Covid”.
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